“…Sì, l’azzardo è stato tante cose: è stato evasione, piacere, divertimento, follia, fuga… è stato tutto, tante cose, non riesco ad individuare solo una questione… è stato tanto, è stata tanta parte di me… è stato un demone che ha girato dentro di me.”Giocatore anonimo
Il gioco d’azzardo è un momento in cui tutto può succedere: i significati si alternano, le dinamiche cambiano, e l’energia si converte. Ci sono azioni, o comportamenti, che possono diventare surrogati perfetti da alternare alla realtà, fino a quasi sostituirla. Se questo accade e la ricerca di questo “rifugio” è costante, esclusiva, ripetuta e disperata la realtà diventa ciò da cui scappare e la rincorsa è verso “l’Oasi” dentro la quale proteggersi.
Steiner (1993) li definisce “rifugi della mente, luoghi (mentali) in cui ci si ritira quando so vuole sfuggire a una realtà insostenibile perché angosciosa. (…) Si tratta di zone della mente in cui trionfa l’onnipotenza e in fantasia qualunque cosa è permessa.” Ritirarsi in questi luoghi regala una sensazione di sollievo che comporta, però, il rischio di isolamento e di conseguenza la compromissione di tutte le altre relazioni, reali e umanamente imperfette. Come altri tipi di dipendenze ricorrere al gioco d’azzardo come contenitore di sollievo/adrenalina può essere un modo con il quale, con alcune persone auto-medicano un proprio disagio, trovando in questi “attimi” una soluzione.
Se il rifugio è un involucro transitorio nel quale nascondersi saltuariamente ed è adeguatamente integrato con l’accettazione della realtà, può convivere con il normale funzionamento del soggetto. Quando la fuga diventa invece la regola, un’esigenza, una necessità, lo stile di vita viene segnato dalla dipendenza, dalla fuga appunto.
Il gioco d’azzardo può diventare un rifugio?
Interrogare il caso, l’idea di influenzare la sorte, sfidare il destino “nella pretesa di controllarlo” sono caratteristiche che l’azzardo per sua natura ha in sé. In questo particolare tipo di gioco, così aleatorio e solitario, la relazione è tra il giocatore ed un interlocutore che non è reale, ma immaginato. Questa relazione diventa totalmente intima: il giocatore interpreta i segnali, rinomina le emozioni, giustifica gli esiti.
Rifugiarsi in un gioco è l’estremo tentativo di evasione, pura, mentale e per questo perfetta poiché esula dal confronto con l’altro. Il gioco, senza il suo degrado evidente, non fa paura, ma costringe nel suo meccanismo senza l’ausilio di sostanze esogene; ciò lo rende sottile, sollevato e introspettivo. Si alimenta e cresce da solo nel suo spietato rapporto con il soggetto che subisce e lo asseconda, affascinato dal rifugio che gli offre e spaventato dalla realtà che non può affrontare. Il gioco è un alternativa colorata, un surrogato perfetto che non riserva sorprese, solo l’attesa asettica di un risultato sul quale non si ha potere.
Non percependo più alcuna emozione si annullano anche gli stimoli, si confina ogni cosa nella paura che si trasforma (cronicizzata) nell’incapacità di riconoscere le emozioni, in questo modo ogni cosa è irrilevante e questo scudo rende intoccabili. Il gioco d’azzardo “pesca” queste emozioni sommerse convertendole in attesa spasmodica di un esito che non porterà gioia ma sollievo momentaneo. L’attesa diventa incontrollabile e si arriva all’incapacità di gestire l’impulso per cui il meccanismo a questo punto incastra nella propria via di fuga diventando prigionieri dell’evasione. La realtà si restringe: si ha paura solo di perdere e si spera solo di vincere.
La vita offre infinite soluzioni e continui cambiamenti: richiede sforzi e capacità di affrontare gli eventi, le frustrazioni e i fallimenti che inevitabilmente si presentano. Ogni paura legata alla sofferenza di rapporti insoddisfacenti, scarsa stima di sé ed esigenze di affetto negato, è “sepolta” sotto il bisogno compulsivo di giocare alimentando ogni volta l’esigenza di giocare di nuovo.